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Discriminazioni e Omofobia

Discriminazioni e Omofobia

Discriminazioni sul posto di lavoro, omofobia, discriminazioni razziali, discriminazioni di genere, discriminazioni verso le persone con disabilità (abilismo), discriminazioni sociali, bullismo e cyber-bullismo

Omofobia

Cos’è l’omofobia e come possiamo affrontarla

Cos’è l’omofobia e come colpisce tutti quanti indipendentemente dall’orientamento sessuale? L’omofobia è l’avversione, il rifiuto o la paura dell’omosessualità o delle sue manifestazioni. Questa omofobia può assumere molte forme diverse, dal semplice scherzo apparentamente innocente fino alle aggressioni fisiche.

Disgraziatamente, l’omofobia che coinvolge lesbiche, gay e trans permea in un modo più o meno sottile ogni angolo della società in cui viviamo e si è incuneata tanto profondamente nelle nostre menti, che anche noi stessi abbiamo una potente carica omofobica al nostro interno che si esprime in diverse maniere, ma soprattutto nella nostra disistima, che è un aspetto da combattere poiché le sue conseguenze influenzano direttamente le nostre azioni nella vita causando risultati infelici. È quello che si chiama omofobia interiorizzata, il disprezzo che sentiamo, consciamente o inconsciamente, verso noi stessi.

La nostra omosessualità è la nostra natura, è qualcosa che convive con noi stessi e che dobbiamo imparare ad amare perché sarà sempre lì con noi; come affermato in precedenza non è una malattia, è naturale come la vita stessa, l’omosessualità è presente in tutte le culture del mondo, fin da prima che esistessero le religioni moderne che la condannano; tra queste, e soprattutto, la religione ebraico-cristiana.

Ma l’omofobia colpisce tutti gli uomini senza distinzione di alcun tipo, inclusi gli eterosessuali, dato che essi devono soddisfare le norme della mascolinità e devono dimostrarla ogni minuto e ogni istante, comportandosi da “uomo”, da “maschio”, con tutti gli annessi e connessi, per esempio quello di non piangere, parlare chiaro, essere maleducato e bestemmiare, etc., altrimenti si cade in una di quelle premesse che la società omofobica si aspetta e si viene sospettati di non essere eterosessuali, e quindi si diventa oggetto di omofobia. Inoltre non viene contestata nel complesso dalla società, perché continua ad essere percepita come riguardante i soli omosessuali.

Una delle forme più terribili dell’omofobia è ciò che costituisce la legge del silenzio che la società impone sull’omosessualità. Come se il solo fatto di non parlare di lesbiche, gay e trans, li faccia diventare invisibili. E quindi, chi si occupa dei diritti e della libertà di qualcuuno che è invisibile? Questo è molto pericoloso per lesbiche, gay e trans, specialmente durante il periodo dell’adolescenza nel momento in cui si scopre il nostro orientamento sessuale, ossia verso chi dirigiamo il nostro desiderio (nessuno ‘sceglie’ come affermano molti omofobi), ci sentiamo completamente soli. Crediamo di essere gli unici che vivono questo presunto “problema”.

Tutti quanti sappiamo molto su questo, non è vero? Di questa paura di essere come siamo perché temiamo di essere rifiutati, che nessuno ci comprenderà e ci appoggerà, per la paura di venire ridicolizzati e insultati. Tutti quanti conosciamo questo panico e ci aspettiamo il peggio del peggio.

L’essere umano sente una necessità urgente di esprimere le proprie emozioni, le proprie paure e gioie, i propri dubbi ed incertezze. E’ necessario parlare, condividere con qualcuno quello che sta accadendo dentro di noi.

Aprire il nostro cuore a qualcuno avrà diversi effetti positivi; sarà possibile ridurre il nostro livello di omofobia interiorizzata che tuttavia non ci abbandona totalmente perché comprendiano che essere lesbica, gay o trans non implica necessariamente che non verremo mai accettati; avremo alleati per ridurre l’omofobia del resto delle persone intorno a noi, questo sarà più facile se avremo un amico che ci ascolta e che ci sostiene.

Come possiamo lavorare contro l’omofobia?

I livelli di omofobia si riducono enormemente quando le persone omofobe conoscono una lesbica, un gay o un trans. Non c’è nulla come guardare la realtà negli occhi per rendersi conto che gli stereotipi non si adattano. Molte persone che fanno commenti offensivi sull’omosessualità non sono consapevoli dei danni che stanno facendo. Quando lo scoprono, smettono di farlo. Le opinioni omofobe posso essere facilmente rimosse perché si basano sull’ignoranza e sul pregiudizio, dobbiamo parlare molto e avere molta pazienza. Parlare del proprio orientamento sessuale con la gente tende a rafforzare i legami.

Discriminazioni Razziali

Discriminazione razziale. Una realtà ancora radicata in Italia

Il 21 marzo ricorre ogni anno la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. La data scelta non è casuale. Il 21 marzo 1960, infatti, nella città di Sharpeville, in Sud Africa, la polizia aveva aperto il fuoco e ucciso 69 persone durante una manifestazione pacifica contro le leggi segregazioniste e, più particolarmente, l’Urban Areas Act. Questa legge obbligava i neri di più di 16 anni ad avere con loro un ‘lasciapassare’ che concedeva loro il diritto di entrare in certi quartieri ‘bianchi’ al di là dei loro orari di lavoro.

Anche se questi eventi tragici sono accaduti più di mezzo secolo fa, quello della discriminazione razziale è un aspetto ancora oggi attuale in tutti i settori della vita quotidiana in ogni parte del mondo. In occasione di questa giornata abbiamo voluto dunque analizzare la situazione in cui si trovano oggi Europa e Italia per quanto riguarda le discriminazioni.

La situazione europea

La Seconda indagine sulle minoranze e sulle discriminazioni nell’Unione Europea, realizzata dall’Agenzia Europea dei diritti fondamentali tra ottobre 2015 e luglio 2016, ci dimostra quanto siano ancora presenti episodi di discriminazioni nel nostro continente, anche se spesso questi passano sotto silenzio.

Cosi l’indagine ci rivela che il 38% delle persone intervistate si sono sentite discriminate in almeno uno dei settori della vita quotidiana, nei cinque anni precedenti l’indagine, a causa della loro origine etnica o del loro background migratorio e, il 24% di loro, ha vissuto queste discriminazioni nell’anno precedente l’indagine.

Tra le persone intervistate che hanno dichiarato di essere state vittime di discriminazioni, ad averne subite maggiormente sono le persone di origine Nord africana, coloro che appartengono alla comunità Rom o con origini Subsahariane (rispettivamente con nel 45%, 41% e 39% dei casi durante i 5 anni precedenti l’indagine, e nel 31%, 26% e 24% durante l’anno precedente l’indagine). Mentre i rispondenti che fanno parte della comunità Rom o che hanno origini subsahariane sono piuttosto vittime di discriminazioni basate sull’apparenza fisica, l’indagine ci rivela che gli immigrati o discendenti provenienti dall’Africa del Nord e della Turchia sono più spesso vittime di discriminazioni basate sul loro nome.

I livelli i più alti di discriminazione basata sul colore della pelle o sul background migratorio sono osservati nell’area dell’impiego e nell’accesso ai servizi pubblici e privati. Il 29% dei rispondenti che hanno cercato un lavoro nei 5 anni precedenti all’indagine si sono sentiti discriminati (percentuale che si fissa al 12% durante l’anno precedente).

Anche se questi dati ci mostrano che gli eventi di discriminazioni sono ancora molto diffusi, sono ancora troppo rare le segnalazioni presso le autorità pubbliche. In realtà, solo 12% dei rispondenti ha segnalato e presentato una denuncia a proposito degli incidenti più recenti di discriminazione che hanno vissuto a causa della loro origine etnica o del loro background migratorio.

Ma come si spiega questa bassa percentuale di segnalazioni? Da una parte con una sfiducia generale verso le istituzioni. Le vittime di discriminazioni infatti ritengono che niente accadrebbe in caso di denuncia. La maggior parte dei rispondenti (71%) tuttavia, non segnala la cosa perché non conosce tutte le organizzazioni che offrono supporto ed assistenza alle vittime di tali atti discriminatori e il 62% non conosce nessun organismo che si occupa di uguaglianza.

Quella italiana è una delle società più razziste

I dati su come gli italiani percepiscono le minoranze, pubblicati nell’ultimo sondaggio del Pew Research Center, non ci rivelano una situazione migliore per quanto riguarda le discriminazioni in Italia. Al contrario il nostro paese risulta essere, tra i sei presi in considerazione dall’inchiesta, la società più razzista.

Così, il 21% dei rispondenti, ha dichiarato un forte sentimento anti ebraico, il 61% di osteggiare i musulmani e l’86% un’avversione nei confronti della comunità Rom, Sinti e Camminanti.

Un risultato confermato anche dalla stessa Seconda indagine sulle minoranze e sulle discriminazioni nell’Unione Europea. Sempre prendendo come riferimento i cinque anni precedenti l’indagine, il 37% dei rispondenti di origine Sudafricana e il 20% di quelli provenienti dall’Africa del Nord si sono sentiti vittime di discriminazioni a causa del colore della pelle e il 32% di coloro che provengono dell’Asia del Sud si sono sentiti vittime di discriminazioni a causa della loro appartenenza etnica.

Una discriminazione non solo sociale ma, in qualche modo, anche istituzionale. La ricerca dell’Agenzia Europea dei diritti fondamentali prende in considerazione infatti anche i controlli di polizia. Tra i rispondenti di origine subsahariana e quelli del Nord Africa, rispettivamente il 28% e il 32% ha dichiarato di essere stato controllato dalle forze dell’ordine durante i 5 anni precedenti l’indagine. Di questi, il 60% e il 46%, ha vissuto il controllo come dovuto alle caratteristiche fisiche o l’origine etnica e non a fondati sospetti di reato.

Le ricerche condotte dall’Associazione Antigone nello stesso ambito ci confermano queste cifre. Secondo il progetto ‘Discrimination’, in cui Antigone è coinvolta, risulta che gli stranieri vengono fermati dalla polizia in misura maggiore degli italiani. Così, i dati sugli arresti ci mostrano che l’8,3% della popolazione residente in Italia non ha la cittadinanza italiana ma ben il 29,2% degli arrestati è straniero.

Di più, secondo il parere degli avvocati intervistati dall’Associazione Antigone, nei processi per direttissima (che hanno luogo quando l’imputato è stato colto in flagranza di reato), le condanne sono più severe per gli stranieri che per gli italiani e i giudici tendono a convalidare gli arresti degli stranieri e a convertirli in custodia cautelare con maggiore facilità.

L’azione penale è anche discriminante rispetto all’applicazione delle misure alternative alla detenzione, molto più facilmente precluse agli stranieri. Infine, uno dei maggiori motivi di discriminazioni deriva dalla mancata padronanza della lingua e da una minore conoscenza del funzionamento della macchina giudiziaria, cui la scarsa presenza di interpreti e mediatori non riesce a far fronte.

Ad alimentare la discriminazione e il conseguente razzismo che, secondo il “Quarto libro bianco’ di Lunaria, presentato nello scorso mese di ottobre 2017, sta trovando sempre nuovo terreno e cresce con un’intensità forte è anche il ruolo dei media, sia social che tradizionali.

Il rapporto ci mostra infatti come sui social media, le informazioni condivise sono sempre meno corrette e i comportamenti sempre più apertamente discriminanti, e come nei media tradizionali si è assistito a prime pagine che hanno invitato a ‘cacciare l’islam’ mentre la narrazione di violenze a sfondo razzista ha trovato sempre minore spazio.

Rom, Sinti e Caminanti. Quando la discriminazione è generalizzata

Un capitolo a parte meritano le discriminazioni contro Rom, Sinti e Caminanti di cui Associazione 21 Luglio si è occupata nel suo Rapporto annuale 2016. Questo documento rende bene l’immagine di “un contesto permeato da pregiudizi e stereotipi penalizzanti diffusi e radicati, caratterizzato da uno scarsissimo grado di conoscenza delle comunità Rom e Sinte e da un clima di generale ostilità”

Nel corso di quell’anno l’Osservatorio 21 Luglio aveva registrato un totale di 175 episodi di discorsi di odio, nei confronti di Rom e Sinti, di cui 57 (il 32,6% del totale) sono stati classificati di una certa gravità.

Una discriminazione proveniente anche da chi si candida a guidare le istituzioni. Infatti, tra coloro che facevano ricorso ad una retorica anti-tzigana, c’erano anche rappresentanti politici – in particolare esponenti dei partiti del centrodestra con quelli della Lega Nord a distinguersi, seguiti da quelli di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Per quanto riguarda la ripartizione geografica degli episodi di discriminazione, la concentrazione più importante di questi episodi si ritrovava nel Lazio (il 24,5% degli episodi), nel Veneto (il 15%), nell’Emilia Romagna (il 12%) e in Campania (l’11%).

A suffragare questi dati è stato recentemente l’indagine ‘Resistenza dell antiziganismo in Italia’ condotta da Nawart Press in collaborazione con il think thank Political Capital Institute e l’Istituto di sondaggi IXE. Le ricerche condotte mostrano che il 22,1% degli intervistati possono essere considerati come intolleranti nei confronti di queste minoranze, escludendo per esempio la possibilità di averli come vicini, mentre il 23,4% è criticalmente indulgente, accetta ad esempio di averli come colleghi ma meno come vicini e in pochi casi come partner.

Tuttavia la ricerca mette in evidenza come nel nostro paese esiste anche una grande fetta di popolazione (17% ovvero 8,7 milioni di italiani) che rifiuta gli stereotipi negativi nei confronti di queste comunità.

Una buona notizia a cui appellarsi per superare in Italia le discriminazioni razziali ed etniche.

Discriminazioni di Genere (verso le donne)

Donne, precarietà e salario. Una storia di discriminazione di genere

La precarietà del lavoro e la conseguente discriminazione salariale sono fattori costanti e strutturali nell’esperienza delle donne lavoratrici, un fenomeno storico caratterizzato da un vero e proprio approccio di genere. La precarietà del lavoro femminile è un fenomeno di lungo periodo, che ha attraversato tutte le fasi del capitalismo storico e ancora prima l’età preindustriale.

La legislazione a tutela delle donne lavoratrici (che in Italia nasce con una legge del 1902) si è lungamente caratterizzata come strumento protettivo del loro ruolo di madri, per salvaguardarne la capacità procreativa, e non per affermarne la pari dignità di persona.

Oltretutto le prime leggi sul lavoro femminile si riferivano solo alle operaie di fabbrica, trascurando le altre categorie in cui era occupata la maggior parte della forza lavoro femminile.

Le donne sono sempre state presenti nel mondo del lavoro ma erano soggetti invisibili, spesso perfino inconsapevoli che le prestazioni quotidiane che svolgevano nelle campagne o nella solitudine dello loro case fossero lavoro. La conquista della consapevolezza del proprio ruolo di lavoratrici, prima di tutto, e poi dei diritti relativi è stata lunga e impervia e non può dirsi certo conclusa.

Ripercorrendo a grandi passi la storia dell’età moderna è possibile riscontrare come fin dalla prima Rivoluzione industriale le modalità di impiego della forza lavoro nell’industria e nelle campagne fossero prevalentemente precarie, sia per stagionalità che per tipologia contrattuale: per tutto il primo Ottocento i lavoratori, non solo donne, venivano impiegati con contratti a cottimo con salari dunque che dipendevano dalla quantità e dalla qualità del lavoro prodotto, e non dalle ore spese per realizzarlo. I rapporti di lavoro erano definiti su base individuale e potevano essere interrotti tramite licenziamento in qualunque momento.

Con la seconda fase dell’industrializzazione le fabbriche raggiunsero dimensioni più ampie e furono adottate macchine semi-automatiche che richiedevano manodopera meno qualificata per mansioni ripetitive e parcellizzate. Queste condizioni determinarono il rapido e massiccio impiego di donne e bambini.

La situazione generalizzata di sfruttamento e precarietà dei lavoratori, e in particolare di quelli più deboli, cominciò a emergere nei paesi europei maggiormente industrializzati con la cosiddetta “questione sociale” a cavallo tra XIX e XX secolo. Numerose inchieste promosse dalla classe dirigente, da leader politici e da associazioni di lavoratori portarono alla luce e denunciarono le condizioni lavorative drammatiche del proletariato industriale.

Con lo sviluppo del sistema fordista, prima nell’industria statunitense negli anni Trenta del Novecento, poi in Europa nel secondo dopoguerra, i rapporti di lavoro guadagnarono una maggiore continuità anche se con gravi disparità geografiche e settoriali.

Durante i due conflitti bellici le donne si sostituirono nel lavoro agli uomini chiamati al fronte. Le lavoratrici si misero alla prova con successo anche in quegli ambiti generalmente riservati agli uomini, come i trasporti e la produzione di armamenti. Al termine della guerra furono massicci i licenziamenti delle lavoratrici per favorire il reinserimento dei reduci. Il lavoro femminile era comunque considerato un indebito fattore di concorrenza per gli uomini.

Per il Fascismo il ruolo della donna era quello di “angelo del focolare”, moglie e madre, dunque il lavoro extradomestico fu osteggiato in ogni modo.

Se il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta vede crescere il proletariato industriale assunto a tempo indeterminato i cui diritti e tutele cominciavano ad essere normati, persisteva un enorme bacino di lavoratori di riserva a buon mercato: le donne.

I livelli salariali erano generalmente dimezzati rispetto a quelli maschili e le forme di contratto quasi esclusivamente precarie. Il contratto a termine usato in modo improprio dal datore di lavoro garantiva a quest’ultimo di potersi liberare della lavoratrice non solo qualora i ritmi della produzione fossero calati, ma anche nei casi in cui avesse contratto una malattia, si fosse infortunata, avanzasse qualunque forma di rivendicazione sindacale, o avesse deciso di sposarsi e dunque avere figli.

Le clausole di nubilato e la pratica delle dimissioni in bianco erano diffusissime e generalmente accettate poiché il lavoro femminile era considerato accessorio e complementare rispetto a quello dei mariti. La percentuale di donne che lasciava l’impiego dopo il matrimonio rimase molto alta fino agli anni Settanta, ovvero fino a quando la legislazione oltre a garantire maggiori tutele alle madri-lavoratrici (legge 860 del 1950) non cominciò a predisporre servizi sociali adeguati a supportarne il doppio impegno fuori e dentro casa, per esempio con gli asili nido. Quando le donne per motivi di sussistenza non potevano rischiare di perdere il lavoro si sposavano in segreto e nei casi più drammatici praticavano l’aborto illegale con enormi rischi anche per la propria salute.

Anche nei periodi di crisi il licenziamento massiccio delle donne era socialmente accettato poiché si riteneva che potessero rientrare nell’ambito domestico come casalinghe. Dunque la disoccupazione femminile accanto alla precarietà non fu mai percepita come un’emergenza sociale.

Tuttavia la presenza femminile nell’industria era capillare. Durante l’espansione industriale all’inizio degli anni Sessanta le donne non lavoravano solo nell’industria tessile, dell’abbigliamento e alimentare, ma anche in comparti tradizionalmente maschili come quello metalmeccanico e chimico. Le operaie metalmeccaniche nel 1961 erano quasi il 19% delle lavoratrici industriali del Paese.

Accanto a queste lavoratrici, socialmente riconoscibili, c’erano le migliaia di donne impiegate nel lavoro a domicilio senza essere inquadrate in alcun contratto e dunque senza godere di alcun diritto (malattia, maternità, pensione). Il fatto che non fossero registrate rendeva difficile perfino censirle e capirne l’effettivo numero, le stime parlano di 700.000 donne circa.

Un esercito invisibile che durante il boom economico rappresentò un motore di sviluppo industriale fondamentale per il Paese, benché non riconosciuto. In particolare le piccole e medie imprese tessili si servivano delle lavoranti a domicilio per svolgere diverse mansioni produttive, scelta che garantiva agli imprenditori notevoli risparmi sia in termini salariali che organizzativi (spazi aziendali messi a disposizione, corrente elettrica consumata, ecc.). Le lavoranti a domicilio venivano pagate a cottimo ed appartenevano a diverse tipologie: erano contadine che nei mesi di inattività in campagna prendevano lavoro a casa e lo svolgevano con l’aiuto di altri familiari, bambini e anziani; erano operaie licenziate che accettavano per necessità la nuova condizione lavorativa anche se molto peggiori; oppure casalinghe costrette a casa dalla presenza di bambini piccoli che nella necessità di integrare il magro salario del marito affiancavano al lavoro domestico quello a domicilio.

La Commissione parlamentare di inchiesta istituita nel 1955 produsse un’imponente mole di documentazione sulla precarietà e la discriminazione che caratterizzavano la condizione lavorativa femminile. Nel 1958 pubblicò 25 volumi, due dei quali erano dedicati all’abuso dei contratti a termine, ai licenziamenti per matrimonio e alla diffusione abnorme del lavoro a domicilio. Quest’ultimo si configurava come la forma di sfruttamento peggiore e la tipologia lavorativa più precaria. Non vi era alcuna garanzia di continuità lavorativa e dunque salariale e la distribuzione dei carichi di lavoro era a totale discrezionalità del datore di lavoro. Anche il salario corrisposto a cottimo era deciso da ultimo dal datore di lavoro che ne giudicava la qualità.

Il cottimo determinava orari di lavoro prolungati e ritmi massacranti che producevano un rapido logoramento del fisico delle donne, già provato dal lavoro domestico e dalle gravidanze. Inoltre anche nel lavoro a cottimo esisteva una discriminazione di genere: i “differenziali di cottimo” erano di fatto quote salariali a incentivo calcolate diversamente tra uomini e donne.

La Commissione stessa formulò alcune proposte per arginare il fenomeno dei contratti a termine e del lavoro a domicilio. La prima proposta di legge risale al 1962: la numero 230 Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, che rimase in vigore fino al 1987. La seconda legge venne approvata nel 1973 e sancì la parità di trattamento fra lavoratori cosiddetti “interni” ed “esterni” alla fabbrica e la qualificazione del lavoro a domicilio come subordinato.

Nel mezzo, nel 1963, venne approvata la legge che vietava i licenziamenti per matrimonio e dichiarava nulle le clausole di nubilato nei contratti, i licenziamenti avvenuti tra la pubblicazione di matrimonio e il primo anno dopo la celebrazione e infine le dimissioni presentate dalle lavoratrici nello stesso periodo. Nello stesso anno fu approvata la legge che garantiva alle donne l’accesso a tutte le carriere anche se nei fatti molte rimasero precluse.

Nel 1965 si tiene la Conferenza nazionale “Diritto della donna al lavoro stabile e qualificato”, in cui finalmente si denuncia la condizione ingiusta e precaria dell’occupazione femminile e una manifestazione di 4.000 donne segue la conferenza.

Nel 1966 viene varata la legge Norme sui licenziamenti individuali che pone limiti importanti ai licenziamenti indiscriminati introducendo la giusta causa o il giustificato motivo, che poi verranno adottati dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori approvato nel 1970.

Da questo momento in poi la precarietà del lavoro venne attivamente contrastata anche se rimase una costante nel lavoro a domicilio che si acuì a seguito del fenomeno di decentramento produttivo e delocalizzazione industriale cominciato nella pima metà degli anni Settanta.

Le lotte operaie tra il 1968 e il 1973 nel frattempo avevano ottenuto sensibili miglioramenti legislativi come la riduzione delle qualifiche e l’inquadramento unico, gli aumenti salariali uguali per tutti, il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e l’adozione di strumenti di controllo per la tutela della salute, la diffusione di mense nei luoghi di lavoro e asili nido aziendali e comunali, la quasi totale abolizione del cottimo a favore di un premio in cifra fissa.

Nonostante la Costituzione repubblicana avesse già sancito la parità di genere sul lavoro all’art.37, che pur fa riferimento al ruolo di procreatrice della donna, è solo nel 1977 con la legge n.903 che si può parlare di parità di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro. Negli anni Novanta seguiranno importanti norme sulle pari opportunità, fino alla legge n.53 del 2000 sui congedi parentali che riconosce anche ai padri una responsabilità sulla cura dei figli.

La battaglia per il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici non è finita. Essa si combatte fuori e dentro il Parlamento, attraversa la famiglia e la Scuola. Oggi le donne che ricoprono ruoli di management nelle grandi aziende sono solo il 13% a dimostrazione di quanto sia ancora diffuso il fenomeno del Glass Ceiling ovvero del tetto invisibile che impedisce alle donne l’accesso ai massimi livelli nelle diverse carriere.

Il riconoscimento reale della parità lavorativa delle donne non è solo una battaglia di civiltà e giustizia ma, come la storia ci insegna, anche la decisiva messa a frutto di un potenziale professionale necessario allo sviluppo economico di un Paese.

Discriminazioni sul posto di lavoro

Da quelle di sesso a quelle d’età, la percentuale delle discriminazioni in Italia è la più alta d’Europa (42%)

I datori di lavoro in tutta l’Unione Europea sono tenuti per legge a garantire la parità di trattamento dei lavoratori e combattere qualsiasi tipo di discriminazione fondata sul sesso, origine razziale o etnica, religione o fedi, disabilità, età oppure orientamento sessuale. Tuttavia, l’indagine Work Force in Europe 2018 condotta da Adp su circa 10mila lavoratori europei di cui 1.300 dipendenti in Italia, ha evidenziato che un lavoratore europeo su tre (34%) si è sentito discriminato per qualche motivo sul posto di lavoro. Questo dato sale al 37% in Francia, Spagna e Regno Unito, mentre i Paesi Bassi hanno l'incidenza più bassa al 21%. L’Italia è in testa con il 42%.

Poco meno della metà degli italiani ha dichiarato quindi di aver subito discriminazioni sul posto di lavoro (il 37,8% degli uomini e il 47,4% delle donne) ecco le motivazioni.

È l’età il principale motivo per cui l’italiano si sente discriminato, infatti lo ha affermato il 19,3% dei lavoratori over 55 mentre tra i 35 e 44 anni lo denuncia solo il 7,4%. Il 22% dei lavoratori tra i 45 e 54 vede l’età come prima motivazione di ostacolo alla carriera, una percentuale molto alta se si considera la tarda età in cui oggi giorno ci si approccia al mercato del lavoro. Seguono le discriminazioni legate al sesso per il 9,8% (6,3% per gli uomini e 14,2% per le donne), background (9,7%), istruzione (6,8), nazionalità (3,4%), religione (4,4%), aspetto fisico (4,4%), sessualità (2,7%).

«I lavoratori italiani sono al primo posto in Europa tra coloro che dichiarano di subire discriminazioni sul posto di lavoro (42%). Una fotografia della nostra società che rispecchia talvolta una scarsa lungimiranza nelle risorse umane e la sopravvivenza talvolta di stereotipi vincolanti. Il sesso e l’età sono i primi fattori di discriminazione, quando in realtà in ambito lavorativo è l’istruzione e l’esperienza a dover governare un colloquio. Uno scenario su cui riflettere per attivare una strategia risolutiva nel creare una cultura aziendale che vada oltre tali limiti, molto spesso sociali»

In Europa, ancora una volta, l'età è indicata come il motivo più comune della discriminazione, citata dal 10% dei lavoratori, seguita dal sesso (8%) e poi dal background (5%) e dall'istruzione (5%).

La discriminazione tra uomini e donne è più alta tra le lavoratrici femminili (12%), mentre la discriminazione per l’età aumenta per le persone superiori ai 55 anni (17%) e inferiori di 25 anni (17%), il che suggerisce che non sia solo un problema per i più anziani. Le segnalazioni di discriminazione basata sull'età sono più diffuse nel Regno Unito (12%), mentre i lavoratori spagnoli riferiscono di essere trattati in modo diverso a causa del loro sesso (12%). I lavoratori del settore delle arti e della cultura riferiscono di subire più discriminazioni rispetto agli altri settori (48%), mentre un'alta percentuale di coloro che lavorano nel settore delle vendite, media e marketing (40%) e servizi finanziari (40%) hanno dovuto affrontare questo problema.

Nonostante il principio della parità di retribuzione sancito nel diritto comunitario, le donne sono ancora pagate in media il 16,3% in meno rispetto agli uomini in tutta Europa. Ciò ha portato alcuni Paesi a introdurre la segnalazione del divario di retribuzione tra uomini e donne, nel tentativo di colmare questo inaccettabile differenza nel riconoscimento economico. Per esempio, la legislazione francese introdotta nel 2010 richiede alle aziende con più di 50 dipendenti di effettuare un’analisi dei divari di retribuzione tra uomini e donne, mentre il Regno Unito ha recentemente seguito l’esempio introducendo obblighi di segnalazione per i datori di lavoro con più di 250 dipendenti.

Ma i dipendenti europei sentono davvero il bisogno di segnalare le differenze di retribuzione tra i sessi nelle loro organizzazioni? Nel complesso, la maggioranza dei lavoratori europei ha fiducia nel fatto che il loro datore di lavoro stia già retribuendo equamente uomini e donne, con il 53% che ritiene che la segnalazione del divario retributivo non sia necessaria - per quanto ne siano a conoscenza.

Tuttavia, più di un quinto (22%) dei lavoratori ritiene che sia necessario e un quarto dei lavoratori (25%) afferma di non esserne sicuro. I numeri, forse non sorprendenti, cambiano a seconda del genere a cui si pone la domanda, infatti un quarto (25%) delle donne crede che sia necessaria la segnalazione delle differenze di retribuzione, rispetto al solo 19% dei colleghi maschi. È anche marginalmente più popolare tra i gruppi di età più giovani, con oltre un quarto (28%) dei lavoratori tra 25 e 34 anni a favore, rispetto al solo 16% dei lavoratori di età superiore a 55 anni.

A livello nazionale, l’appoggio per la legislazione raggiunge l’apice in Francia, dove un terzo (32%) dei dipendenti pensa che dovrebbero esserci segnalazioni della disparità di retribuzione tra uomini e donne, insieme alla Svizzera, dove il 29% è favorevole. I lavoratori nei Paesi Bassi sono i meno probabili a ritenere che sia necessaria (8%), seguita dal Regno Unito (14%), nonostante la legislazione sia appena entrata in vigore. Da una prospettiva di settore, i professionisti dei servizi finanziari hanno più probabilità di affermare che sia necessaria la segnalazione della disparità di retribuzione tra uomini e donne nella loro azienda (30%), seguita da quelli del settore informatico e delle telecomunicazioni (27%). Al contrario, i lavoratori del settore pubblico hanno meno probabilità di ritenerla necessaria (9%).

Discriminazioni verso persone con Handicap (Abilismo)

Perché le persone disabili non hanno bisogno della tua pietà

Con il termine “abilismo” si intende la discriminazione verso le persone disabili, parente stretta di sessismo, omobitransfobia, razzismo e di tutte le altre discriminazioni sociali. Il termine deriva da “ableism”, sviluppatosi in ambito anglo-americano in riferimento all’abilità, fisica o mentale, come norma e unica condizione accettata.

Un problema molto sentito dagli attivisti disabili è che la disabilità è sempre stata vista come una mera questione medica. Una condizione tragica e sfortunata, senza tante possibilità, da compatire, da curare e possibilmente quindi da eliminare. Dall’epoca dei freak show, intrattenimenti morbosi per le persone non disabili, o dal periodo in cui la disabilità veniva imputata ai peccati della famiglia e i figli “paralitici” venivano nascosti in casa, la cultura si è faticosamente evoluta.

La concezione della disabilità nei secoli è passata da una visione medica fino allo sviluppo del Modello Sociale della Disabilità, teorizzato da Mike Oliver nel 1983. Il Modello Sociale aggiusta il paradigma, definendo la disabilità come una condizione socio-politica marginalizzata che ha una propria cultura e community, e che affronta determinati tipi di discriminazioni.

Ma alcune tracce di questa concezione rimangono ancora oggi: nei talk show strappalacrime, o nelle scelte di marketing di Telethon. Non ci sono più i freak show ma c’è l’inspiration porn, articoli di giornale, meme su Facebook, storie strappalacrime dove le persone disabili o gravemente malate sono ritratte come esempi di coraggio semplicemente sulla base della loro disabilità, e vengono ridotte a esempi motivazionali per chi non è disabile.

E c’è un certo tipo di voyeurismo che ha trovato terreno fertile per svilupparsi a causa della poca esposizione delle persone disabili nella società. Le persone disabili forse non verranno più segregate in casa, ma spesso non possono comunque uscire quando vogliono, o andare dove vogliono, a causa della mancanza di servizi e accessibilità.

Come tutte le discriminazioni strutturali, l’abilismo si sviluppa su più livelli. Possiamo pensarlo come una piramide, alla cui base si collocano i fenomeni di entità minore, dettati da ignoranza, paternalismo e incapacità di andare oltre agli stereotipi di cui la nostra cultura è impregnata; e al cui vertice troviamo il genocidio. Dato che si tratta di un crescendo, è importantissimo riconoscere e combattere anche gli atteggiamenti minori, quelli che sembrano innocui, perché sono solo l’inizio di un modo di pensare che può avere conseguenze letali.

L’indifferenza è il gradino più basso della piramide della discriminazione. Un esempio è non contrastare le battute abiliste. Espressioni come “sei un Down”, “sei un handicappato”, “sei un mongolo” vengono spesso automaticamente giustificate come insulti bonari. Eppure, se la nostra lingua ritiene che essere paragonati alle persone disabili sia un insulto, vuol dire che c’è un problema strutturale.

Il gradino successivo all’indifferenza è la minimizzazione. Ad esempio, è molto comune nei convegni a tema disabilità che i relatori siano in gran parte non disabili: spesso si tratta di medici, operatori del settore e caregiver. Non ci sono mai persone disabili che occupano posti di rilievo. Non lasciare spazio alla voce dei diretti interessati è abilismo. Un altro esempio di minimizzazione è giustificare il carattere discriminatorio di una situazione dicendo che le intenzioni della persona “discriminante” erano buone e magari consigliare in modo paternalistico alla persona disabile di “apprezzare comunque le intenzioni”, invalidando i suoi sentimenti feriti.

Questo ci porta all’abilismo velato, quello che non si mostra in modo palese per quello che è. Non più semplicemente non contrastare, ma fare battute abiliste, perché ormai sono parte integrante del vocabolario degli insulti, come si diceva prima. Arriviamo poi alla discriminazione esplicita, che è tutt’oggi molto frequente.

La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009, viene costantemente violata. Chi è disabile è discriminato nella ricerca del lavoro, sempre che la sede del colloquio sia accessibile o lo siano i mezzi che portano lì. Le barriere architettoniche quasi onnipresenti impediscono o rendono difficile la partecipazione agli spazi pubblici, e si continuano ad aprire nuovi negozi, bar e locali privi dei requisiti legali di accessibilità.

Non è ancora diffusa l’idea che la presenza di scale in un luogo pubblico equivalga in sostanza all’affissione di un cartello con scritto “vietato l’ingresso alle persone in carrozzina”, o che un semaforo senza segnaletica sonora è come apporre la scritta “vietato il passaggio alle persone cieche”. L’Italia è stato il primo Paese europeo ad abolire negli anni Settanta le scuole separate per gli studenti disabili, e costituisce un modello per gli altri Paesi (dove classi differenziali o vere e proprie scuole “speciali” sono ancora frequenti), ma in pratica situazioni di segregazione restano, a causa delle barriere architettoniche o della scarsità di assistenza scolastica che di fatto limitano l’inclusione.

Altri esempi di discriminazione esplicita sono le politiche che non si occupano di disabilità e diritti. In particolare, sono abiliste quelle politiche che resistono alle richieste sempre più decise degli attivisti disabili di stornare i fondi per l’assistenza ora destinati alle strutture segreganti verso una gestione autonoma delle risorse da parte delle persone disabili sulla base dei propri bisogni specifici.

C’è abilismo anche in campo medico, dove statisticamente si fornisce una qualità del servizio inferiore a chi ha disabilità: si sottovalutano in partenza le potenzialità e le aspirazioni delle persone disabili e quindi si offre un servizio di minore qualità. Un uomo disabile statunitense, ad esempio, è stato oggetto di negligenza e pregiudizio da parte del personale sanitario dello Yale New Haven Hospital finché non ha chiesto ai colleghi professori universitari di bioetica di intervenire; in Inghilterra è stato arbitrariamente approvato un ordine di DNR (“Do Not Resuscitate”) per un’eventuale complicazione della condizione di salute di un uomo con la sindrome di Down adducendo la sua disabilità come motivo e senza consultare lui o la famiglia; un’attivista e accademica autistica non è stata coinvolta nel processo decisionale sulla propria terapia e i suoi sintomi minimizzati perché i medici hanno scritto sulla cartella clinica, a torto, che aveva un “ritardo mentale”. Inoltre, c’è il grande problema dell’inaccessibilità dei servizi sanitari, specialmente dei servizi ginecologici e di prevenzione del tumore al seno.

Al livello superiore troviamo l’incitamento alla violenza. Come l’eugenetica, che ha radici nel diciannovesimo secolo. Una retorica che considera di minore valore le vite delle persone disabili è un incitamento al disprezzo, alla discriminazione e alla violenza verso le persone che stanno vivendo quella condizione.

Violenza che non è una novità per le persone disabili segregate nelle case di cura, alle quali cioè non viene erogato dai servizi sociali un finanziamento sufficiente per assumere assistenti nel proprio ambiente di vita per svolgere le attività quotidiane. Già privare della libertà una persona, limitarne le uscite, imporle orari per mangiare, usare il bagno e andare a dormire è violenza diretta, il penultimo scalino della piramide. Inoltre, in una struttura chiusa dove la persona non decide da chi viene assistita, si crea uno squilibrio di poteri in cui la persona disabile è in assoluto la parte più debole, tanto che micro e macro abusi sono quasi inevitabili.

Un altro esempio di violenza diretta sono i crimini di odio verso le persone disabili, i cosiddetti “mercy killing”. Come per i femminicidi, quando si legge dell’uccisione di una persona disabile da parte del suo caregiver si parla di “troppo amore” o al massimo di “raptus”, quando in realtà si tratta di un fenomeno strutturale che ha come premessa la svalutazione delle vite delle persone disabili. Da cui il passaggio al vero e proprio genocidio non è così lungo. L'”Aktion T4”, lo sterminio di 300mila persone disabili (anche se il numero preciso resta ignoto), sotto il regime nazista fu il banco di prova per lo sterminio delle altre minoranze e finì addirittura dopo: quelle delle persone disabili venivano definite “vite indegne di essere vissute”. Un simile movente sta dietro al massacro di Sagamihara, in Giappone, quando nel 2016 un ex dipendente si è introdotto in una struttura residenziale, ha ucciso diciannove persone e ne ha ferite ventisei, di cui non sono stati resi noti dai media nemmeno i nomi.

L’abilismo, purtroppo, è strutturale e normalizzato, e dato che il termine è poco conosciuto persino dalle persone disabili e dai circoli di giustizia sociale, è difficile definire e classificare la discriminazione, che quindi diventa anche difficile da combattere. Alcuni passi importanti da seguire per contrastare l’abilismo sono guardare la disabilità attraverso una lente sociopolitica, affrontare la discussione sull’abilismo parallelamente alle discussioni sulle altre discriminazioni, amplificare quanto più possibile le voci dei diretti interessati e cercare di decostruire e analizzare quello che abbiamo imparato di disabilità vivendo in una cultura abilista.

Discriminazioni Sociali

Criticano ciò che sei, ciò che ami, la tua pelle, le tue origini e le tue apparenze. Ti guardano male e ridono di te per la minima diversità.

No, non siamo nel Medioevo, ma nel XXI secolo.

Le discriminazioni sociali fanno parte della quotidianità per gli adolescenti, talmente tanto da non provocare più scalpore.

La gente critica, ride e sghignazza, commenta e deride qualsiasi persona non rientri nei loro canoni di normalità, perchè piena di pregiudizi. E i pregiudizi nascono dall'ignoranza.

Continuamente, vengono fatti passare atteggiamenti razzisti, omofobi e xenofobi come normalità, rendendo vittime ragazzini che si vergognano di essere quello che sono e che cercano in tutti i modi di cambiare e scusarsi perchè convinti di essere sbagliati.

Basta sfiorare i limiti della ormalità per diventare il centro di commenti e prese in giro, che spesso si espandono sui social, diventando insotenibili.

E la gente non ne parla. Spesso questi argomenti vengono visti come "argomenti tabù", argomenti non trattabili, evitati con la scusa del "sono troppo piccoli per capire", creando così ragazzini convinti di essere superiori.

Tutto ciò dovrebbe finire

Non esiste normalità o diversità, non esiste giusto o sbagliato, non esiste persona "da tenere" o persona "da cambiare"

Siamo ciò che siamo, e nessuno merita di scusarsi per essere semplicemente sè stesso

Bullismo e Cyber-bullismo

Analisi del fenomeno per prevenirlo a scuola

Come è noto il termine bullismo deriva dall’inglese “bullying” e viene usato nella letteratura internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo. Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta i lavori pionieristici di Heinemann (1969) e Olweus (1973) rilevarono un’elevata presenza di comportamenti bullistici in molte scuole scandinave catalizzando l’attenzione anche della stampa. È proprio Olweus (1996) che, per primo, formula una definizione del fenomeno, affermando che: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, ad azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni

Le definizioni che si sono succedute negli anni hanno aggiunto ulteriori particolari, ad esempio Bjòrkqvist e collaboratori (1982) hanno enfatizzato la disparità di potere e la natura sociale del bullismo; Besag (1989) ha sottolineato la sistematicità e la durata nel tempo dell’azione aggressiva e l’intenzionalità nel causare il danno alla vittima; Sullivan (2000) ha parlato di abuso di potere premeditato e diretto verso uno o più soggetti. Il bullismo fa parte della più ampia classe dei comportamenti aggressivi, può essere presente durante tutto l’arco di vita dell’individuo e assumere forme diverse a seconda dell’età, è però sempre caratterizzato da intenzionalità, persistenza e squilibrio di potere.

Bullismo. Storia, teorie e analisi sociologiche

In linea generale sono identificabili tre tipologie di comportamento aggressivo: violenza fisica diretta, aggressività verbale e relazionale, anche indiretta, caratterizzata spesso da violenza psicologica come diffamare, escludere, ghettizzare o isolare la vittima.

In genere le vittime di genere femminile reagiscono al sopruso con tristezza e depressione, i soggetti di genere maschile invece esprimono più spesso la rabbia. Inoltre, mentre le ragazze tendenzialmente denunciano le prepotenze subite e, se spettatrici di episodi di bullismo perpetuati ai danni di altri, reagiscono cercando di difendere la vittima, i ragazzi adottano più spesso un comportamento omertoso e complice.

Le differenze di comportamento tra i generi si acutizzano con l’età: meno evidenti nei primi anni di scuola, emblematiche del genere di appartenenza durante il periodo adolescenziale. Molteplici sono i modelli teorici che hanno cercato di spiegare l’aggressività e il bullismo e di comprendere i fattori del disagio o della devianza. Dalla teoria dell’interazione sociale alla teoria del controllo sociale vengono tenuti in debito conto i principali fattori della devianza. Entrambe le teorie postulano che la personalità del bambino si struttura a partire dalla relazione con i genitori, i quali diventano agenti di facilitazione dei valori sociali e delle funzioni di controllo (sviluppo morale).

È la teoria dell’attaccamento che chiarifica la funzione protettiva che una relazione sana con il caregiver può assumere nello sviluppo del bambino, o, al contrario, quanto un rapporto conflittuale possa divenire sinonimo di difficoltà nel processo di crescita. Inoltre, non bisogna dimenticare un’ampia parte di letteratura che evidenzia come episodi di bullismo, subiti e perpetrati, nell’infanzia e nell’adolescenza abbiano forti probabilità di sfociare in gravi disturbi della condotta in tarda adolescenza e nell’età adulta.

Rilevante è stato il contributo di Oliverio Ferraris (2008) nel sintetizzare le cause originarie degli atti persecutori: il bullismo appare fondarsi su un disagio familiare che spinge l’individuo a mettere in atto comportamenti vessatori essenzialmente per due differenti ragioni quali l’apprendimento pregresso e il vissuto di rivalsa. Nel primo caso il soggetto ripropone in classe il modello di comportamento violento appreso in famiglia. Nel secondo, riattualizza ciò che ha vissuto come vittima di aggressioni, invertendo però il proprio ruolo (identificandosi così con l’aggressore).

Una variabile importante per la descrizione e l’interpretazione del fenomeno è il periodo di insorgenza dei comportamenti bullistici. Le azioni aggressive che insorgono in età adolescenziale assumono una valenza prioritariamente relazionale con lo scopo di far assumere al singolo un’identità all’interno del gruppo. La condivisione diventa la condizione identificativa e definitoria del gruppo, in una costante interazione tra il dentro (da salvaguardare) e il fuori (il nemico), l’azione diviene l’espressione della frustrazione interna che deve essere scaricata, allontanata da sè e diretta verso una vittima esterna.

Con i suoi primi lavori condotti su oltre 130.000 ragazzi norvegesi tra gli 8 e i 16 anni, Olweus (1983) trovò che il 15% degli studenti era coinvolto, come attore o vittima, in episodi di prepotenza a scuola. Successivi studi hanno poi confermato l’incidenza e la diffusione di questo fenomeno nelle scuole. Nella nostra realtà nazionale, già i primi dati raccolti negli anni ’90, con un campione di 1.379 alunni tra gli 8 e i 14 anni, indicarono come il 42% di alunni nelle scuole primarie e il 28% nelle scuole secondarie di primo grado riferissero di aver subito prepotenze. Questi studi mettono in evidenzia come la scuola possa diventare possibile luogo di persecuzione e violenza a carico di tre specifiche categorie: il bullo, la vittima, il gruppo.

Il bullismo non è un fenomeno di nuova generazione, ma è innegabile che presenti oggi dei caratteri di novità, uno dei quali è ascrivibile nelle potenzialità offerte dalle strumentazioni tecnologiche. Una nuova manifestazione di atti di bullismo, è infatti, il cyberbullismo, frutto dell’attuale cultura globale in cui le macchine e le nuove tecnologie sono sempre più spesso vissute come delle vere e proprie estensioni del sè.

Cyber-bullismo

Gli sms, le e-mail, i social network, le chat sono i nuovi mezzi della comunicazione, della relazione, ma soprattutto sono luoghi “protetti”, anonimi, deresponsabilizzanti e di facile accesso, quindi perversamente “adatti” a fini prevaricatori come minacciare, deridere e offendere. Tra le definizioni di cyberbullismo maggiormente accreditate sono rintracciabili quelle di Smith (2008) che parlano di un atto aggressivo attuato tramite l’ausilio di mezzi di comunicazione elettronici, individuale o di gruppo, ripetitivo e duraturo nel tempo, contro una vittima che non può facilmente difendersi.

Come accade per il bullismo inteso in senso classico anche il cyberbullismo può assumere diverse manifestazioni a seconda dei mezzi e delle modalità con cui si esplica. Willard (2004) categorizza il cyberbullismo in otto specifiche tipologie di comportamento:

  • il flaming, ovvero, inviare messaggi volgari e aggressivi ad una persona tramite gruppi on-line, e-mail o messaggi;
  • l’on-line harassment, inviare messaggi offensivi in maniera ripetitiva sempre utilizzando la messaggistica istantanea;
  • il cyber- stalking, persecuzione attraverso l’invio ripetitivo di minacce;
  • la denigration, pubblicare pettegolezzi, dicerie sulla vittima per danneggiarne la reputazione e isolarla socialmente;
  • il masquerade, ovvero l’appropriarsi dell’identità della vittima creando danni alla sua reputazione;
  • l’outing, rivelare informazioni personali e riservate riguardanti una persona;
  • l’exclusion, escludere intenzionalmente una persona da un gruppo on-line;
  • il trickery, ingannare o frodare intenzionalmente una persona.

Bullismo e cyberbullismo si differenziano in particolare nella dimensione contestuale: nel cyberbullismo gli attacchi non si limitano esclusivamente al contesto scolastico, ma la vittima può ricevere messaggi o e-mail dovunque si trovi, e questo rende la sua posizione molto più difficile da gestire e tollerare. Nel bullismo digitale la responsabilità può essere condivisa anche da chi visiona un video, un’immagine e decide di inoltrarla ad altri, il gruppo, quindi, acquisisce un ruolo, un’importanza, una responsabilità diversa e, in particolare, la portata del gesto aggressivo assume una gravità spesso superiore, con conseguenze estremamente gravi.

CI

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Africa. Un continente sempre più omofobo

Il punto sull'Africa, un continente sempre più omofobo. Le politiche sempre più restrittive dei governi trovano anche il consenso della popolazione.

Discriminati, umiliati, aggrediti, arrestati e incarcerati. Chi non rispetta il canone eterosessuale è considerato un criminale e perseguito in 33 dei 54 stati africani. In alcuni paesi la legge prevede anche la pena di morte, ma a scandalizzarsi è (quasi) solo l’Occidente.

A novembre dello scorso anno ha suscitato molto scalpore in Tanzania, e non solo, il provvedimento del governatore della provincia di Dar es Salaam, Paul Makonda, con cui è iniziata una caccia alle streghe contro gli omosessuali, o presunti tali, sul territorio distrettuale.

Il giovane politico, cristiano devoto e alleato del presidente John Magufuli, ha annunciato la creazione di una squadra speciale di sorveglianza con il compito di setacciare i social network per individuare i “criminali" e gettarli in carcere per almeno trent'anni, o a vita, come prevede la legge in vigore. Non solo. Makonda ha anche lanciato un appello a tutta la popolazione perché denunci eventuali sospetti. Una settimana dopo dalle parole si è passati ai fatti, con l’arresto di dieci uomini a Zanzibar, segnalati da alcuni cittadini perché sospettati di essere in procinto di celebrare un matrimonio omosessuale sulla spiaggia.

Questo è solo uno dei numerosi arresti e controversi provvedimenti ai danni della comunità Lgbt tanzaniana che si susseguono da quando è stato eletto il governo di Magufuli nel 2015, criticato anche dalla Chiesa per le sue scelte politiche antidemocratiche e contrarie alla libertà di espressione. Il presidente è arrivato persino a chiudere le cliniche per la cura dell’aids perché sospettate di “promuovere l’omosessualità

L’Unione Europea si dice “molto preoccupata” per la situazione dei diritti umani nel paese. Dopo aver richiamato il suo ambasciatore Roeland van de Geer, ha fatto sapere che rivedrà le sue politiche nel paese. E anche la Danimarca, secondo donatore straniero della Tanzania, ha annunciato il congelamento di 10 milioni di dollari.

I media ne hanno parlato meno, ma quasi contemporaneamente Human Rights Watch (HRW) ha pubblicato un rapporto, “Let Posterity Judge” (Lascia il giudizio ai posteri), in cui si denunciano le gravissime aggressioni subite da Lgbt nel vicino Malawi, dove gli omosessuali vengono aggrediti dalla popolazione, maltrattati e arrestati arbitrariamente dalla polizia. La situazione è peggiorata dal 2016, quando è stata sospesa la moratoria sulle leggi anti-Lgbt introdotta dal governo della presidente Joyce Banda nel 2012.

Caccia alle streghe

Il clima di terrore che si vive in Tanzania e Malawi è diffuso. Seguendo la cronaca, le manifestazioni di omofobia si ripetono periodicamente in tutto il continente, da nord a sud. In Tunisia gli attivisti hanno denunciato più di 100 arresti di persone omosessuali dall'inizio del 2017, sottoposte in seguito a umilianti ispezioni corporali intime. In molti ricorderanno poi le dichiarazioni di capi di stato come il keniano Uhuru Kenyatta che in aprile, durante un’intervista rilasciata all'emittente CNN, ha affermato che i diritti dei gay «non hanno importanza» per il suo paese.

L’Africa, assieme al Medio Oriente, è la regione più pericolosa del mondo per lesbiche, gay e transgender che sono esposti al rischio di discriminazione, persecuzione e morte. Essere gay nel continente africano equivale spesso ad avere una vita nell'ombra, in costante pericolo, emarginati dalla società e dalla propria famiglia, e trattati come una minaccia criminale alla pubblica morale.

Secondo quanto denunciato da Amnesty International, l'omosessualità è illegale in 33 dei 54 stati africani ed è punibile con la morte in Mauritania, Somalia, Sudan e nel nord della Nigeria. Inoltre, come riporta la International Lesbian and Gay Association, le misure contro gli Lgbt che risalgono a leggi di epoca coloniale o ad interpretazioni giuridiche a difesa del “buon costume” o della pubblica morale, sono state inasprite negli ultimi cinque anni.

Consenso popolare

Purtroppo occorre ammettere anche che l’opinione pubblica africana accetta e sostiene queste norme discriminatorie e le pratiche anti-Lgbt dei governi. Una ricerca condotta dal PewResearch Center di Washington, rivela che il 98% dei nigeriani, il 96% dei cittadini di Senegal, Ghana e Uganda, e il 90% dei kenyani, è convinto che la società non debba accettare l’omosessualità, ma combatterla.

L’ex-presidente zimbabwano Robert Mugabe, spodestato l’anno scorso da un colpo di stato, era arrivato a definire i gay «peggio di cani e maiali» e l’omosessualità una pratica deviante e «anti-africana», perché «frutto dell’idiozia degli uomini bianchi». La dialettica del nonagenario Mugabe rispecchia l’idea diffusa nel continente che l’omosessualità sia una malattia, importata dagli colonizzatori occidentali.

In realtà si tratta di un’enorme menzogna, in quanto diversi autorevoli studi, come “Boy Wives and Female Husbands” di Stephen O. Murray e Will Roscoe, e “Heterosexual Africa?” di Marc Epprecht, hanno dimostrato come l’omosessualità facesse già parte di diverse culture ancestrali africane molto tempo prima dell’arrivo del colonialismo. Già nelle testimonianze dei primi esploratori inglesi e portoghesi, nel sedicesimo secolo, si parla di sesso fra uomini in alcune tribù del Congo. Ma ci sono testimonianze della pratica anche in Etiopia, Madagascar, Angola, Camerun, Sudan e altrove. Semmai, dunque, è l’omofobia ad esser stata importata dagli occidentali nel continente africano.

Moltissimi degli africani gay, lesbiche e transessuali sono anche dei convinti fedeli cristiani e musulmani che chiedono di essere quantomeno rispettati e non demonizzati e stigmatizzati.

I diritti e libertà inviolabili alle quali si appellano, sono le stesse di tutti gli esseri umani, credenti e non, e in quanto tali non dovrebbero essere negate a nessuno.

Maris Davis, venerdì 17 maggio 2019

La legge contro il cyber-bullismo in cinque punti

È entrata in vigore il 18 giugno 2017 la nuova legge che si occupa del fenomeno del cyberbullismo. Stiamo parlando della L. 29 maggio 2017, n. 71, Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 3 giugno 2017.

Qui il testo integrale. Inoltre sono state pubblicate le Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, previste dalla legge: uno strumento flessibile e aggiornabile per rispondere alle sfide educative e pedagogiche legate alla costante evoluzione delle nuove tecnologie.

1. Che cosa si intende per “cyberbullismo”?

La norma fornisce per la prima volta una definizione giuridica del cyberbullismo come qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo. (Art.1) e indica misure di carattere preventivo ed educativo nei confronti dei minori (qualunque sia il ruolo nell’episodio) da attuare in ambito scolastico, e non solo.

2. Come cambia la scuola?

La legge definisce il ruolo dei diversi attori del mondo della scuola italiana (MIUR, USR, Istituti Scolastici, Corpo docente) nella promozioni di attività preventive, educative e ri-educative. L’insieme di queste azioni di attenzione, tutela ed educazione è rivolto a tutti i minori coinvolti in episodi di cyberbullismo, sia che si trovino nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, e senza distinzione di età nell'ambito delle istituzioni scolastiche.

Le Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo indirizzano le scuole, per la realizzazione delle attività di prevenzione, al Progetto “Generazioni Connesse” (progetto coordinato dal MIUR).

3. Cosa può fare in autonomia un ragazzo/a vittima di cyberbullismo?

Ciascun minore oltre i quattordi anni  (o i suoi genitori o chi esercita la responsabilità del minore) che sia stato vittima di cyberbullismo può inoltrare al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media un'istanza per l'oscuramento, la rimozione o il blocco dei contenuti diffusi nella rete. Se entro 24 il gestore non avrà provveduto, l'interessato può rivolgere analoga richiesta al Garante per la protezione dei dati personali, che rimuoverà i contenuti entro 48 ore. Il Garante ha pubblicato nel proprio sito il modello per la segnalazione/reclamo in materia di cyberbullismo da inviare a: cyberbullismo@gpdp.it

4. In cosa consiste il provvedimento di carattere amministrativo?

È stata estesa al cyberbullismo la procedura di ammonimento prevista in materia di stalking (art. 612-bis c.p.). In caso di condotte di ingiuria (art. 594 c.p.), diffamazione (art. 595 c.p.), minaccia (art. 612 c.p.) e trattamento illecito di dati personali (art. 167 del codice della privacy) commessi mediante internet da minori ultraquattordicenni nei confronti di altro minorenne, se non c’è stata querela o non è stata presentata denuncia, è applicabile la procedura di ammonimento da parte del questore (il questore convoca il minore, insieme ad almeno un genitore o a chi esercita la responsabilità genitoriale). Gli effetti dell'ammonimento cessano al compimento della maggiore età. Sarebbe stato auspicabile evitare l’applicazione ai minori della procedura di ammonimento e promuovere invece la responsabilizzazione degli autori di atti di bullismo e cyberbullismo attraverso il ricorso a procedure che ne prevedano l’ascolto e la partecipazione.

5. Qual è il ruolo dei servizi territoriali?

I servizi territoriali, con l'ausilio delle associazioni e degli altri enti che perseguono le finalità della legge, promuovono progetti personalizzati per sostenere le vittime di cyberbullismo e a rieducare, anche attraverso l'esercizio di attività riparatorie o di utilità sociale, i minori autori di cyberbullismo.

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